DOMUS numero 944 – La Legge implacabile e il concetto di Agorà. David Chipperfield progetta a Salerno

Nel 1999, quando fu bandito il concorso per la nuova sede del Palazzo di Giustizia, la città di Salerno sembrava a molti come la Bella Addormentata svegliata dal bacio del Principe dell’ Architettura.
Anche se questo aveva le fattezze mature del catalano Oriol Bohigas, il miracolo pareva prendere quota: e da un sonnecchiante capoluogo all’ombra della capitale-rivale Napoli, la cittadina campana si risvegliava al ritmo dell’inusuale movida che spingeva ogni sera migliaia di giovani nelle strade e sul famoso lungomare.
Autore di un rivoluzionario piano regolatore che metteva da parte Ie astrattezze dell’urbanistica in favore dell’ architettura, Bohigas cercava di trapiantare a Salerno il metodo adottato per la Barcellona olimpica degli anni Novanta: individuare
aree a vocazione specifica e promuoverne la rivitalizzazione e il ridisegno, potenziando Ie funzioni collettive e lo spazio urbano. Così, un caso apparentemente disperato, come quello del tunnel viario lungo I’alveo del fiume Irno, poteva trovare un principio di riscatto nella previsione di una sua trasformazione in boulevard, attrezzato al traffico pedonale e valorizzato da un’importante opera: il nuovo Palazzo di Giustizia in sostituzione della monumentale, ma inadeguata, struttura nel centro storico. Il concorso seguiva a ruota quello del 1998 per il riuso dei cosiddetti  “Edifici Mondo”, i grandi contenitori storici abbandonati, vinto a sorpresa da una quasi debuttante Kazuyo Sejima.
Diversamente da questo, però, iI concorso per la sede del Tribunale partiva da un programma più chiaro e urgente, che avrebbe dovuto garantirne la realizzazione con fondi interamente pubblici. Ma, soprattutto, c’ era una grande aspettativa davanti alla risposta dei dieci architetti selezionati dalla giuria del concorso: quale visione sarebbe emersa dai loro progetti? Nel 1999, lo spettro di Tangentopoli condizionava ancora, con il suo lugubre sapore di catene, la rappresentazione collettiva dell’immagine della Legge. L’ arcigna mole di pietra del Palazzo di Giustizia di Piacentini a Milano – scenario fisso dei telegiornali della sera – era diventata per molti l’essenza stessa di un Potere che sorreggeva la bilancia del Giudizio sul palco di una ghigliottina, più che in un’agorà dei cittadini: terribile e temibile, il Tribunale sanava antichi torti e placava sopiti rancori, ma suscitava anche l’oscuro timore del singolo sottoposto all’implacabilità della legge. Questa concezione onnipotente della Legge, come occhio che scruta l’interiorità del singolo alla ricerca del crimine, era ancora proponibile o doveva essere sostituita da una prospettiva di riconciliazione che insistesse, soprattutto, sul valore civico ( e quindi urbano de civile) del Tribunale?
Dominique Perrault aveva provato ad aggirare il quesito, proponendo una torre a gradoni interamente ricoperta da un’elegante pelle di vetro serigrafato: l’effetto vagamente optical conferiva una seducente allure a una sagoma che invitava a riflettere sulla metafora del palazzo trasparente, ma non rinunciava a una monumentalità non certo a proprio agio nel contesto dello sprawl salernitano. Con una brillante invenzione, Enric Miralles aveva ribaltato la questione: perché il Palazzo di Giustizia non poteva essere il nido della democrazia? Un groviglio di fasci filiformi componeva il sito e quasi si scioglieva al suolo diventandone parte integrante. Aveva, però, bisogno di essere costruito integralmente in una sola fase per funzionare, e questo era un ostacolo non da poco alla sua praticabilità. Terzo progetto a imporsi all’attenzione, quello del giovane David Chipperfield offriva la quadratura del cerchio, con uno schema tanto apparentemente semplice quanto indubitabilmente efficace: coniugando I’etimologia Inglese del termine law courts  con la tradizione mediterranea del patio e della corte, la sua proposta offriva un ‘interpretazione letterale del concetto di “cittadella giudiziaria” come rappresentazione di una citta in muratura. Se il fianco lungo il  fiume dava forza all’ asse del previsto boulevard, I’ angolo d’ingresso potenziava la sinergia delle vicine arterie stradali nel nodo di una piazza accessibile da una breve scalinata. Con lo scopo di rinforzare I ‘idea di una struttura aperta in termini sia fisici che sociali, il progetto concretizzava uno spazio pubblico rispondente al clima del luogo. Collegava ognuno dei diversi edifici con una serie di giardini e di colonnati, ricorreva a un rivestimento di pannelli – originariamente previsti in cotto e improntati a una delicata palette di colori – che conferiva energia al ritmo dei blocchi di diversa altezza e lunghezza e che scomponeva lo skyline in un delicato mix di pixel cromatici. Da 1999, purtroppo, il progetto si è protratto nelle lungaggini di un cantiere ostacolato -come sovente in Italia -da una gestione politica travagliata: nondimeno, il suo valore seminale è dimostrato dalla gemmazione di numerose varianti e,soprattutto, dall’analoga Città della Giustizia di Barcellona (con b720 Arquitectos, 2002-2009). La semplicità dello schema, che giustappone volumi isolati in una maglia fatta di corti e piazze interne, è il segreto della sua efficace chiarezza: una maniera di ripensare il concetto di monumento alla luce della cultura contemporanea e di riaffermare il valore civico delle opere d’interesse collettivo.
A Barcellona, la diversità del Sito -un’area al confine tra Barcellona e Hospitalet, occupata precedentemente da capannoni dell’ esercito -verifica la giustezza del metodo con la diversità della sua applicazione . Nove blocchi edilizi sono progettati come semplici blocchi prismatici, con facciate in calcestruzzo colorato di differenti tonalità: quattro sono collegati tra loro da un corpo continuo di quattro piani e si aprono a ventaglio su una piazza pubblica orientata lungo l’asse della Gran Via, la principale arteria d’accesso alla città, A Salerno, la composizione lineare asseconda la lettura del tessuto urbano lungo il fiume e l’asse di scorrimento. A Barcellona, l’area vagamente triangolare pone in primo piano lo spazio pubblico d’accesso, offrendo una pausa pedonale rispetto al traffico della Gran Via, e arretra gli edifici sul fondo, in una disposizione che non forma un fronte unico, ma amplia Ie prospettive per dissimulare l’intensità del programma edilizio. Fulvio Irace